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Giovanni Riccioli - Coffee Truck Raider
Le 6.30 del mattino di un giovedì di fine ottobre, vagliate dagli occhi gonfi di umido, sgranati tra le pareti dell’angusto bagno, infondono il sapore citrico del vertiginoso dubbio di trovarsi alle pendici del giorno o all’apice della notte. Filtrato dalla opaca finestra di un essenziale monolocale a Sesto San Giovanni, il giorno accenna la sua presenza, sebbene abbandonato dall’alba, ostaggio purtroppo del labirintico lenzuolo della fitta foschia. È difficile stabilire con risolutezza in che angolo del tempo ci si trovi e, ancora più complessa, appare la macchinosa ricerca di motivazioni per accendere le pigre volontà del mattino. Affogata la profonda indecisione nel tetro tepore del caffè, circa un’ora dopo, verso le 7.25 per l’esattezza, espletate tutte la ritualità preparatorie, depongo ogni fiducia nell’arrancante accensione del motore della macchina, altare propiziatorio di una preghiera mantrica a metà tra l’accelerazione della tirannia del tempo e la sospensione dello stesso. Fuori dalla portiera, un silenzio disagevole circonda l’isolato; un treno di ruvidi pneumatici batte l’asfalto bagnato, un fischio serpeggia tra le fronde degli arbusti piegati sul marciapiede, già spogliati dalla criniera come vittime di una calvizie precoce. Un’orchestra di clacson, adunatisi al primo incrocio affollato, accende gli animi assopiti dei tignosi conducenti.
Tutt’intorno un grande buio ammanta e confonde. Pare di trovarsi prigionieri di un inatteso inverno boreale, carceriere impietoso di un’aurora che nega il concilio alle azioni con le volontà. Questo livello distorsivo della percezione aumenta sensibilmente quando metto in cammino l’automobile e, nel silenzio sordo riempito solo dal ciarlare di una stazione radio orfana di musica, io e la mia compagna ci ravvediamo riguardo il temibile traffico mattutino dell’area urbana coperta dal mantello di Sant’Ambrogio. La proverbiale Idra multiforme di serpenti meccanici riversati sulle strade bagnate di brina non è per niente così spaventevole come nei drammatici racconti raccolti. Su Viale Sarca le ruote scorrono ormai lisce, rallentate solo dagli snelli e cauti semafori che si alternano nei colori come se fossero delle stringhe su una borsa firmata da Gucci. D’altronde siamo nella città della moda e da qualche parte gli stilisti dovranno pur trarre ispirazione. Sui finestrini scorrono, riflettendosi, i grossi capannoni delle vecchie aree industriali, effimere macchie di un disegno di Balla, e i loro nomi si avvicendano aggressivi e prevaricanti come come gli scatti feroci di Vera Lutter.
Marcegaglia, Vetrobalsamo, Breda, l’Hangar Pirelli, l’Università Bicocca sembrano le torri di un perimetro spettrale, vittima di un sortilegio di rancido terrore, scalfito sulla pietra rossa delle mura di cinta e preservato sulle palpebre malate del suo popolo, quotidianamente sacrificato nell’impastatrice avida del giorno. Scivolando tra le sdrucciolevoli ombre delle strade affogate tra cantieri ardenti, specchi metallici di alte mura lamierate, ponti ferroviari, pareti smussate che incartano abulici centri commerciali e alte fronde tese come archi spiegati al tiro, sbuchiamo in zona Niguarda, dove la mia compagna supplisce un’assenza in una scuola dell’infanzia. Le acute voci degli alunni impazzano agli incroci, tra le fermate del saluto e le corse di benvenuto. I clacson del giorno, ormai non più solitari, tuonano contro la marmorea razionalità della facciata del nosocomio Ca’ Granda, sorvegliato dall’impassibile sguardo mesto dell’elegante Vergine Annunciata di Franco Lombardi. Si nutre di basica vitalità la solitudine della città. Ma la chiusura secca dello sportello dell’auto, lascia improvvisamente ogni tumulto e sapore fuori dall’abitacolo, mettendo sottovuoto le sensazioni atone di una mattina che per me non riservava alcuna strategia o adempimento. Ripercorro quasi a ritroso il tragitto dal ventre urbano che riporta a casa.
Vorrei fare degli scatti a Sesto, vorrei cercare un’angolazione per spiare un fianco della ex piccola Manchester, tra le linee ormai evanescenti dei suoi gargantueschi siti industriali dismessi, deposti ai bordi della strada, austere sfingi scarne e digiune senza alcun indovinello che ci racconti la civiltà proletaria estinta. Ma le mie idee sono così leggere che si confondono nella nebbia ancora bassa che cela il sonnacchiante stadio Breda. Mi dirigo verso l’area ex-Falck lungo Viale Italia e accosto ai piedi del muro di cinta del cantiere di bonifica della vecchia acciaieria. Il traffico è sostenuto sebbene scorrevole e qualche strano passante girovaga svogliato tra i marciapiedi stretti e coperti di fogliame, con il passo incerto di un’improvvisa amnesia. Carico la pellicola tirandola leggermente con le mie mani ghiacciate, avvolgo intorno al rocchetto un paio di scatti a vuoto, rilasso le braccia, espiro una boccata di fumo freddo, appoggio gli occhi sul circostante e cerco ispirazione. La crisi siderurgica che ha marcito la vita di quel colosso d’acciaio sembra aver infettato ogni spunto della mia creatività, troppo annoiata per trovare un senso estetico a quella distanza.
Mi porto a casa il volto e le azioni di qualche temerario passante e poi tento di nuovo di prendere per le corna il bisonte, provando a entrare nel cantiere, cosa che, perentoriamente, mi viene negata dalla vigilanza. Sosto ancora qualche minuto, fotografando riflessi d’acqua che specchiano poco e niente, sino ad attirare il sospetto di un nuovo custode circa la mia attività. Gli fu semplice intimarmi di andare via, come scacciare un cane senz’appetito. Di nuovo in macchina, mi diressi al Villaggio Falck, che ovviamente trovai chiuso e inespugnabile, così come i Magazzini Generali. Contattai persino la dirigenza al fine di ottenere un permesso per fotografare qualche interno, magari anche solo un muro, l’ingresso di una vecchia abitazione, un bollitore abbandonato in qualche cucina arrugginita, i corridoi della vecchia bulloneria. Le mie intenzioni già deboli risultarono vane come il coraggio di un soffione contro la prepotenza del vento. Vago per un po’ senza meta. I miei occhi, poco lucidi, rincorrono lo sguardo disorientato che si scontra sul pesante cemento di alcuni insediamenti urbani di Via Gramsci, o si stende sui fitti intrichi di binari della stazione, per inciampare tra i mattoni rossi scudo della zona Bicocca. Inforco la mia Pentax K1000 e provo a mettere in posa qualcosa. A muovere la mano, forse, è più la magniloquenza degli edifici che una vera passione per il soggetto, un po’ come un chitarrista metal davanti a una partitura di Bach. Locomotive, vetrate spaccate dell’Ansaldo, ampi spazi a mo’ di cinodromi, effigi commemorative, il MIL. Niente che rapisse l’occhio e appagasse il cuore.
Magnifiche strutture acquietate come stanchi randagi in attesa dell’ultimo saluto del mio occhio il quale, purtroppo, vagava distratto. Col disagio di un mendicante impaurito dal vuoto della ricerca più che dal suo risultato, peregrino, costeggio i rampicanti mattoni accalcati sulle pareti degli edifici fino ad attraversare il varco che un tempo era il cancello degli stabilimenti Breda, vegliato dalla solenne torre piezometrica. Nessuna calca, nessuna trafila, nessuna traccia di maledizioni morsicate e sbuffate mattutine di arcigni e trafelati metalmeccanici. Qualche risata disinibita, invece, echeggia tra le auto in sosta inscatolate e i richiami di una sirena che avvisa le manovre di un cingolato dal cantiere. Su questo villaggio disarmonico e senz’ordine sovrasta un pingue cielo lacrimoso. Apro lo zaino. Tre colpi di pompetta e strofinate multiple per lucidare l’ottica, una controllata alla ghiera dei fuochi, la valutazione dell’esposizione e la decisione, ora più volontaria, di rubare le distorsioni di questo tradimento territoriale dell’uomo. Spero quasi che per qualche esoterica ragione la pellicola riesca a riesumare un brandello di ciò che è stato perduto, di ciò che si è dimenticato, qualche fantasma irrequieto che lotta col tempo. La nostalgia ha sempre rivestito il mio mirino con un cristallino filtro di osservazione, che distingue l’inutile dal necessario, l’umano dal meccanico, le storie che le fronde tendono a occultare, e, anche oggi, spero che la regola non venga alterata.
Al centro di un affollato parcheggio meccanico, tra le fitte trame delle facciate in mattoni degli stabilimenti, un piccolo furgoncino trainante una roulotte aperta su un lato fa da balcone itinerante, tra la monotonia degli stazionamenti a spina di pesce e i filari di oleandri potati. Al posto di rigogliosi gerani, cadono, a grappoli, sorrisi, chiacchiere, saluti cordiali, tazzine monouso, qualche fragrante leccornia e un intenso profumo di caffè. Il grosso logo a forma di chicco di caffè tostato affisso sulle fiancate del furgone e il nome del proprietario rendono un po’ più specifica l’identità di quell’improvviso portatore di buon umore. Giovanni Riccioli. Forse, poiché la meridiana si stava spostando a metà mattinata e un po’ perché sedotto da quell’inattesa sorpresa, decido di battezzare il momento come giusto per gustarmi un buon caffè. Mi avvicino al bar su gomme e, dietro l’ombra dell’abitacolo, metto a fuoco le movenze prima e le fattezze poi dell’abile barista. Indossa una comoda maglia modello dolcevita, tirata sulle maniche per meglio armeggiare utensili e canovacci e un po’ consumata sui bordi del collo, a causa dello sfregamento della lunga barba.
La testa è ben larga e avvolta da una coppola di tweed che gli cade morbida sulle tempie, da dove fuoriescono delle ciocche voluminose di capelli, spolverati da riflessi lucidi di quel tono sale e pepe. Reso ancora più largo dall’estensione dei folti baffi arricciati sui delicati solchi delle labbra sopra e dalla lanosa barba che ne sommerge il mento, il suo sorriso piomba acceso sulla sfinita cliente a cui aveva tenuto riservato un croissant, come l’innesco di energie di metà mattinata. Le porge il pasticcino farcito ancora di tanto buonumore e poi si allontana, aprendo i suoi occhi neri e tondi, richiamo geometrico della montatura dei suoi occhiali. Poi, ormai a solo una spanna, le sue gote si gonfiano per dirmi “Buongiorno. Prego”. “Prendo un caffè”, risposi, cercando di mascherare, dietro uno speculare sorriso, il mio magnetico interesse per il suo fare. Più che un barista mi sembra un vecchio baleniere a bordo della sua roulotte ambulante, la sua Pequod, in balia dell’agitato grigio del cielo. Scruto, sperando di scorgere l’arpione legato alla cintura o di vederlo zoppicare, senza una gamba, portatagli via da qualche misterioso feroce capodoglio. Nell’attesa del caffè, inizia a montare il latte per un cappuccino, che lo avvolge in un manto di fumo color nebbia, velo di pennello rubato a una tela di Turner.
Il mio espresso arriva servito con l’aroma avvolgente del ristoro e del buon fare e, dietro il fumo diradante, mi sembra di intuire che, forse, l’unica vera ossessione per cui quell’uomo era votato consisteva nella garbatezza. Le sue chiare e forti braccia si muovono sul piccolo bancone come le eleganti gambe di una étoile, tra passi a due di piattini e cucchiai e arabesque di tazzine accompagnate dal melodico strumento della sua voce. In questi momenti di grande energia sociale e di fantasiosa pre-visualizzazione simbolica, ci si riesce a interrogare sulle mille vesti che indossa la leadership. Si riesce, in un certo qual modo, a trovare una forma essenziale ai rapporti relazionali, gerarchici e di merito, altalenando tra le fogge austere che svettano sulle mostrine di una divisa, quelle lucide che scendono sui costosi baveri della fervida oratoria, e quelle semplici che si nutrono e nutrono dall’angusto abitacolo di un baretto ambulante. E, poiché su questi scranni non è mai il computo delle attività svolte nel dato istante a determinare il profilo di valore, la curva percettiva espressa nel tempo da quel capitano di ventura offriva un capitale umano dal pregio inestimabile. Sorseggio l’espresso con il piglio morbido di chi vuole annegare le ansie del tempo, un po’ serenamente per ricerca di quiete, un po’ furbescamente per imbastire una plausibile scusa per rimanere al cospetto di quel baraccone delle meraviglie. Tendo lentamente il bicchiere in posizione orizzontale per far scorrere il caffè sulla punta della mia lingua, con l’inclinazione di un canale di acque irrigue che, senza foga, rifocilla un terreno arido. Con calma, alzo il braccio per portare su il bicchiere e godermi fino all’ultimo rivolo di crema addensata sul fondo. Poi, quando infine la mano ricade verso il basso per poggiare il vuoto bicchiere sul bancone, avverto un fruscio, alle spalle, portarsi via un turbine di fogliame, seguito da un brivido di freddo che mi assale il collo scoperto. Chiedo quanto fosse il dovuto, mentre con la mano frugo lo spiccio nella mia tasca. “Offre la casa”, risponde rallegrato il cerimoniere di palazzo Riccioli. Provo a insistere, ma la serafica tranquillità della sua insistenza sortisce in me l’effetto che seduce un serpente di fronte un pifferaio, alla cui volontà, senza dubbio alcuno, mi abbandono. Dopo i contenuti ma sinceri ringraziamenti, mi allontano poco oltre il parcheggio di fronte e, da lì, provo a scattare qualche foto. Forse due. O tre.
Ogni volta che il fulmineo battito dell’otturatore raggiunge l’attenzione delle mie orecchie, avverto un malinconico senso di inadeguatezza come se osservassi la vita da un’angolazione ostruita. Ho trascorso parte della mattinata a stanare la mia preda, a fiutare il soggetto vivo di un giorno ancora non modellato da un’attribuzione di senso e bagaglio di un’esigenza narrativa ancora non assegnata. Riconosco chiaramente che la bussola della fortuna mi ha condotto nel posto giusto e non posso concedere al rimpianto il ricordo di quali passi avesse mancato il coraggio. Mi dirigo nuovamente verso quel tempio di ristoro e piacere, in attesa che il sommo sacerdote termini le ultime pratiche di migliore auspicio per gli altri devoti, per poi ricevere la sua piena attenzione alla quale consegno tutte le aspettative del giorno. Ci presentiamo rapidamente e da quel momento in avanti tutte le suggestioni che hanno inebriato la mia mattinata si raddensano in un unico nome, Giovanni. Gli spiego che sono un fotografo freelance e che mi sarebbe piaciuto molto documentare con qualche scatto la giornata tipo del suo lavoro ambulante. Immediatamente e con naturalezza la dimensione di forzata costruzione di questi frangenti, ingannati tra onestà di racconto e diffidenza del filtro della posa, si schiudono in un’empatia totalmente votata all’agiatezza e la spontaneità. Trascorriamo delle ore insieme e io mi sento dimentico del mirino incorniciato della mia macchina e Giovanni libero dall’estensiva visione del lungo occhio della mia lente. Come in un film di Godard, Giova (così ha piacere d’essere chiamato) trasmigra da una dimensione oggettiva ad una soggettiva, dal racconto al documento, rivolgendo, sicuri, i suoi occhi smaltati come l’ebano al centro dell’obiettivo, confidente degli aneddoti più preziosi della sua storia umana. Ogni contatto tra il suo sguardo e lo specchio della lente penetra affilato oltre il muro del piano focale, per attraversare i miei pensieri più curiosi, finendo per insediarsi seducente nelle mie emozioni più attente. I primi scatti esposti alla morbida luce di quell’incontro riportano i toni del dato documentale. Giova, col fare da istrione navigato che dietro la trama di un racconto nasconde sempre la stoffa di qualcosa di più profondo, inizia raccontandomi della sua attuale attività.
Quel furgoncino con, a rimorchio, chilometri di caffè espresso, cappuccini cremosi, morbidi macchiati, energetici marocchini, fragranti cornetti da addentare, storie sepolte e altre inevase, sorrisi e saluti urlati o strozzati, era solo l’anticamera di un’attività più estesa che si sviluppava tra uffici, depositi e siti di torrefazione. Per trasferire quella che è l’immagine di questa originale organizzazione d’impresa, potrei dire che mi trovavo al front desk della ditta “Caffè Riccioli”, una realtà artigianale d’eccellenza capace di seguire e curare ogni fase di lavorazione, dalla selezione del caffè, alla sua torrefazione, alla distribuzione del prodotto finito, e alla formazione riguardo le sue qualità aromatiche. In definitiva, Giovanni Riccioli, lì di fronte a me, con in volto la semplicità dell’accoglienza, aveva organizzato una struttura aziendale solida e produttivamente innovativa. Giova sviscera ogni singolo dettaglio del suo modello d’impresa, con la passione figlia di una verve che non conosce ostacoli o storture. La Caffè Riccioli consiste di una sede legale con annesso locale deposito in Via Degli Artigiani (nomen omen) di Arosio, da dove, seduto alla sua scrivania, Giova gestisce gli ordini di acquisto delle partite di caffè, dispone le commesse alle torrefazioni affiliate e predispone le spedizioni dei lotti di vendita in tutta la Lombardia. Queste attività tese al perfezionamento delle pratiche di sviluppo aziendale sono tutte gestite con un astuto sistema di e-commerce, regolato dalla capacità di copertura raggiunta attraverso i social network e il contemporaneo sussidio promozionale, reso possibile dalla contestuale attività di formazione ai clienti e di vendita diretta sul territorio sostenuta con il suo inseparabile coffee truck. Dietro il suo sguardo vispo e mai stanco, scopro che Giova esce di casa alle 6.00 in punto del mattino per essere a lavoro con il suo furgoncino alle 7.30. Trasporta la sua bottega sulle tratte del ristoro urbano fino alle 12.30 all’incirca, per poi dedicarsi ai clienti cui fornisce il suo caffè da bar e rientrare in ufficio a scartabellare documenti e fatture, già predisposti con dettagliata sapienza da sua moglie. Alla pronuncia di questa parola scatto un istante che è il riflesso sullo specchio della vita di Giova. Oltre la lucida superficie del dato aziendale della Caffè Riccioli si intravedono i valori sostanziali che trasformano la vita in impresa. I successivi scatti riescono a leggere oltre il guscio dell’esteriorità, ricavando un innalzamento della latitudine di posa emotiva, capace di rivelare il vissuto più profondo di quest’uomo. Giova nasce a Lentini, in provincia di Siracusa, all’alba dei giorni in cui il mondo intero veniva scosso da grandi mutamenti socio-culturali, che in quelle arse terre sicule solcarono un terreno insanguinato da aspre rivendicazioni sindacali di braccianti agricoli. Il padre, operaio in cerca di una partecipazione sociale più progressista di quella che le natie terre solevano offrirgli, sale sul treno fitto di addii ed abbandoni con la moglie e il piccolo Giova di tre anni. Percorre in lungo le fumanti carrozze fino ai vagoni più antistanti, per non voltarsi più indietro, finché il veloce serpente metallico non venga avvolto dalla nebbia padana. Qui volge lo sguardo al finestrino, abbandonandosi al difetto di un orizzonte che non distingue più il futuro dal passato. La malinconia del sorriso dell’ora maturo Giova che scivola tra i contrasti di una fotografia non ci svelerà mai se la sua infanzia, estirpata dalla forza di un inconsapevole viaggio, sia stata fortunata o turbolenta. Ma per citare le poche parole che spende sull’argomento con acuta ironia, ricorda che “sono cresciuto nel buco nero della negativa meteorologia lombarda come figlio di terroni. Così ci chiamavano qui ed eravamo in tanti, ma non ci offendevamo mica, o denunciavamo il fatto come atto discriminatorio. Finiva a cazzotti e basta, poi con qualcuno si rimaneva amici, con altri ci si diventava indifferenti. D’altronde è la vita che va così, non sono certi supposti processi che la definiscono”. Immerso nell’adottiva realtà Giova cresce presto e solido. Poco feeling caratteriale con la scuola che lo classifica e lo indirizza verso percorsi professionali. Diploma, servizio di leva e poi un impiego come turnista nella fabbrica dove il padre si spacca la schiena come operaio specializzato. Questo protocollo d’intesa, che spesso porta la firma del sogno di una sola delle parti in causa, ahimè, non ha lunga vita. Giova decide di seguire il suo sogno, il sogno di chi cerca l’oltre, vagando tra un carteggio di pensieri che ancora non ne ha chiare le coordinate. Inizia a lavorare in una falegnameria, settore artigianale che subito sente affine. La proprietà demiurgica di alcune attività si fonda sull’empatia emotiva che si instaura tra la materia e la mano e, in quella sinergia, Giova trova motivazioni e piacere che, mescolando passione e intenzione, mettono in discussione tutto, come fa il vento di Levante negli ultimi giorni d’inverno. Si iscrive a un corso di interior design e per poter frequentare le lezioni serali si vide costretto a cambiare diversi lavori di fortuna.
Morbidamente, mentre mi racconta dei difficili e dolorosi sacrifici, i suoi occhi si poggiavano sui terzi del mirino, brillanti e fieri, con quella luce vellutata di chi non conosce l’onere della passione. Quella sua parte di racconto sovraespone i miei scatti, fino a bruciarne i dettagli quando termina rimembrando gli anni in cui conobbe Rosa Maria, ex-studentessa dell’istituto da lui frequentato e sua futura moglie. Giova si prende una pausa narrativa per servire nuovi avventori e anche io ne approfitto per rifocillare la mente dal pensiero. Come una spugna intrisa di tutta questa vitalità, mi stiracchio per meglio far permeare la storia e sgrano un po’ gli occhi, per far respirare l’iride che, chiuso, avevo tenuto e spinto contro la macchina fotografica. Anche tutto intorno la strada si copre di plumbea luce. Sulle macchine in sosta i tetti riflettono il velo morbido del cielo che si fa più sottile, mentre un tenace raggio avanza attraverso l’allentata trama delle nuvole, rifrangendo il suo spettro contro il prisma sfaccettato di uno specchio non coperto. Il fascino maggiore che trovo nella fotografia è sempre stato di tipo percettivo, ossia la capacità di trasformare, anche dopo un singolo scatto, lo sguardo sulla realtà immanente. Avevo raggiunto quella traversa di Viale Sarca avvolta da un’atmosfera cupa, solitaria e negativa, dove lo spazio naturale quasi prova a sottrarsi, a nascondersi, e ora, dopo circa un’ora di chiacchierata e scatti, quel luogo aziona una dinamica di colori e di elementi completamente nuova. Insomma, lo sguardo rivolto al mondo dovrebbe presupporre sempre un’istanza estetica che si rivela attraverso un veicolatore di senso. Stamattina Giova è il mio pivot nodale. Cambio l’obiettivo. Voglio realizzare qualche scatto in grandangolo. Mi piacerebbe restituire qualche posa di Giova nel suo mondo, per provare a raccontare una micro-cosmogonia personale. Giova si riavvicina.
Col suo fare sempre garbato, riprende il discorso dal punto esatto in cui l’ha interrotto. “E da lì a poco ci sposammo. Nel 1992 Rosa Maria mi ha portato all’altare. Voglio dire che mi ha portato lei nel senso che ogni successo che ho raggiunto nella vita, l’ho raggiunto sotto la sua costante spinta”. Nel dire queste parole si guarda leggermente intorno, come se la vita intera si possa contenere nel bagagliaio di un furgone o si fermi nella cornice di una finestra. Questo insignificante movimento mi fa capire che non c’è nessuna retorica nelle sue parole, nessuna esigenza di tradire la storia di sé, ma solo la fiera dichiarazione di un sentimento d’amore che accarezza ogni spigolo della sua vita. Due anni dopo hanno il primo figlio Filippo che fu il più giovane sostenitore del padre all’esame di diploma nello stesso anno. Questo trampolino ha spinto Giova nella sua girandola di lavori temporanei, per poi costruirsi una stabilità nel ramo dell’arredamento di qualità come contractor. Inizia la sua piccola impresa con un socio e rapidamente raggiunge un discreto livello di successo che lo porta a gettarsi anima e cuore nel lavoro. Durante questa lunga corsa mozzafiato, gioie e dolori si susseguono, per disequilibrarsi in intensità solo quando un secondo fiocco celeste viene affisso alla sua porta. Nasce Edoardo. Le soddisfazioni nel narrare le dinamiche familiari si attenuano però quando torna a parlare di lavoro, argomento che lo riconduce in memoria al rapporto con il suo socio. Tra le trame rugose dei suoi zigomi riposano gli agrodolci sapori della fiducia che Giova ripone sempre nelle persone a lui vicine, a cui non ha mai osservato la scortesia del dubbio. Ne approfitto per rubare qualche istante fotografico in più durante questo silenzio. Quella pausa, che letta sul volto si scrive negli occhi, è di chi sa di avere un tempo nella vita incatenato al rimosso, come una nemesi senza origine. Un leggero bagliore si riflette sul vello della sua barba, una luce incastonata nell’intreccio della sua lanugine, che combatte per fuoriuscire come il nostalgico sorriso sulle sue labbra.
L’impresa fallisce a causa dell’abbandono del suo socio e Giova si trova nuovamente a dover arare un terreno incolto, esacerbato dagli eventi. Con il beneplacito di Rosamaria, Giova muove la rotta verso un nuovo porto e, senza indugio alcuno, apre un bar ristorante affiancato dal piccolo laboratorio nel quale produce il suo caffè. “Per un po’ mi è sembrato di aver trovato la quadra, di aver trovato un senso strutturale al mio lavoro”, racconta. “Sceglievo la miscela del mio caffè, ne decidevo il grado di torrefazione, studiavo il colore, il gusto, l’aroma. Impacchettavo il mio espresso, lo macinavo e lo servivo nel mio bar. Mi sentivo finalmente completo, come il ciclo di produzione che curavo”. La sua loquela si fa più semplice, meno volubile, meno gesticolata più consapevole. La messa in posa è più solida, ben concentrata compositivamente, riflesso della certezza che Giova abbia trovato l’equilibrio tra la sua energia e quella dell’ambiente circostante. Geometricamente lo spazio si lascia inquadrare agile, veloce, dinamico ma non caotico, come i sentimenti di chi controlla le turbolenze dell’animo. “Avevo capito cosa volevo. Volevo, insomma, unire la mia vena pratica artigianale del fare con quella sociale del contatto con la gente, tutto finalizzato alla soddisfazione condivisa con la mia famiglia”. Giova tuona tali parole come la sintesi della finalità morale della sua vita. Così dicendo, esplicita in chiave non metafisica un preciso assunto speculativo. E, in definitiva, la vera interrogazione che suggerisce non era di tipo dialettico, non cerca ragione o torto, ma di tipo etico. Che cosa può desiderare un uomo più della gratificazione di appartenenza alla sua vita pubblica e alla sua vita privata? La felicità, quasi in chiave neo-epicurea, risiede sempre nella leggerezza massima, ideologica e sentimentale. Il mantra di Giova è il chiavistello che apre le porte a un definitivo karma, ma al mio occhio manca ancora un passaggio cognitivo. Cosa ci fa allora in quel coffee truck, sulla strada, a profondere gusti e profumi in quel girone di industrie e uffici? “Dopo un paio d’anni cedetti il bar. Il locale mi portava via troppo tempo, avevo coinvolto anche Rosa Maria nella gestione e il carico di lavoro e di stress cominciava a sfuggirmi un po’ di mano. Sentivo che l’obiettivo della mia attività era fuori fuoco e sentivo che dovevo correggerlo. A quel ciclo produttivo che si era generato mancava qualcosa, mancava il perché facevo tutto questo. Chiaro avevo la mia famiglia, i miei figli ai quali volevo garantire un futuro, ma io in tutto ciò cosa stavo facendo? Mollai il bar come terminale ultimo del mio lavoro e decisi di mettermi in cammino, materialmente parlando, a promuovere il mio lavoro, la mia opera, il mio caffè. Volevo spiegare agli utenti finali, ai clienti baristi le qualità del mio caffè, forse la sua storia…in fondo volevo lasciare qualcosa che andasse oltre il semplice bere disinteressatamente un espresso”.
Giova spinge oltre la sua esposizione speculativa e individua, definitivamente, la finalità ultima del suo percorso, il lascito sociale, il senso stesso della sua vita. Precisa un valore etico, che denota la sua funzione e il suo rapporto con gli altri, oltre qualsiasi formulazione di mercato. Giova individua tale funzione nella formazione, una sorta di catechesi educativa che lui vuole impartire ai consumatori, sia intermedi che finali, del suo caffè. Così, a suo avviso, il meccanismo dell’assunzione dell’espresso dovrebbe essere sopperito dal valore dell’esperienza utile a migliorare la qualità generale, emotiva e organolettica, della pratica del caffè al bar. Involontariamente, Giova ci suggerisce che ogni espresso ha la sua storia collettiva ed individuale, e ogni utente può tendere a questo stato catartico attraverso la conoscenza organica e semantica del prodotto. Un più ruvido avvolgimento della pellicola mi avvisa del quasi esaurimento del rullino, sorpresa che, fortunatamente, capisco avvenire contestualmente all’attività di ristorazione di Giova. Si scusa sempre in maniera straordinariamente gentile e comincia a riordinare il bar e svolgere le pratiche per chiudere bottega. La mattinata di lavoro volge al termine e davanti gli si apre un pomeriggio fatto di formazione per i clienti, gestione ordini e pratiche d’ufficio. Però, prima di congedarsi da quella mattina insieme mi volge l’invito a bere un ultimo caffè insieme. Gradisco entusiasta l’idea e ne accetto di buon grado l’offerta. Attendo qualche attimo mentre la densa cremina dell’espresso viene giù dalla solida macchina Wega, poi gli indirizzo quella che credo sia stata la mia seconda domanda. Da quando ho iniziato a fotografarlo non ho dovuto chiedergli nulla. Come un torrente in piena mi ha raccontato splendidamente ogni singola sfumatura della sua vita. “Come ti vedi da qui a 5 o 10 anni?”, gli domando. Sebbene il suo entusiasmo rispetto a ciò che già fa mi appariva chiaro e sicuro, avverto comunque una roboante forza innovatrice che lo motiva, che, forse, se non nel senso, nel metodo lo avrebbe portato a nuovi cambiamenti. Giova si prende un attimo per rispondere e intanto infonde le narici nel bicchiere e le labbra nell’oro nero. “Guarderò prima fuori di me e vorrei vedere i miei figli realizzati, solidi. Poi guarderò dentro di me e, se devo essere onesto, mi piacerebbe chiudere la catena”.
“Che vuoi dire?”, chiedo sorpreso. “Sai vorrei portare quell’aspetto formativo del mio lavoro nei paesi produttori di caffè, dove i lavoratori che lo raccolgono non conoscono la vera finalità del loro lavoro. Penso all’Etiopia, completamente surrogata alle grandi multinazionali che depredano i raccolti e non generano evoluzione culturale. È come se venissero a mungere tutte le vacche in Italia e non ci facessero mai vedere il formaggio. Ecco mi piacerebbe restituire quello che so e che ho fatto a chi ne genera il processo a monte con il suo lavoro. Sarebbe per me un’azione di grande giustizia sociale”. La sua chiosa risuona sorprendente e rivelatoria, espressione di un diretto e spontaneo ottimismo che sempre scuote il romanticismo assopito.
Forse Giova non restituirà mai il capitale tecnologico ed economico nei paesi sottosviluppati e chissà quanto le azioni supereranno le intenzioni, ma mi piace pensare che lui, il rassicurante baleniere barista qualcosa la farà. E mi piacerebbe un giorno poter essere testimone di questo progetto, seguirlo tra luoghi esotici e popoli estranei, cercando di contenere in uno scatto quel suo carisma travolgente e contagioso, per poter raccontare l’idea di un uomo che si affaccia al mondo senza la presunzione capitalistica di chi perora il profitto imponendo una specifica competenza, e con l’entusiasmo di chi trova nella condivisione con la collettività la motivazione del suo lavoro. Ci abbracciamo e congediamo con l’augurio che un giorno, chissà… Mi avvicino alla mia auto temporeggiando il mio rientro per poterlo osservare andarsene. Scatto l’ultima foto, come se fosse stata la cartolina da spedirci durante un pingue giorno di nostalgia e lo lascio scorrere davanti a me. Su quella strada, sotto la spinta di sei pneumatici si allontana l’involontario epitome dell’uomo moderno. Il profilo di un esodato mai sconfitto, a cui la società ha tagliato le certezze del viver comune, quelle garanzie minime di stabilità, di successo, di riscatto e lo aveva trasformato in un Odisseo moderno. Un uomo defraudato non solo della possibilità di raggiungere la meta, ma della meta stessa che possiede ancora la ricchezza della ricerca. Un Robinson Crusoe naufrago di questa arida civiltà abile navigatore delle passioni e di coltivatore della fiducia umana. Avvolto nella cappa che sprigiona l’aroma del suo intenso caffè, Giova si muove al galoppo del suo destriero su ruote verso nuove storie di sogni e concretezze, abile a sfoderare il nerbo che argina e ricaccia i problemi e probo nella qualità che lustra ancora la spesso macchiata morale umana.
Seguendo i sentieri di catrame bruciato, volgo lo sguardo a terra, verso una pozzanghera che mi sembra uno specchio d’acqua. Un saluto di mano mi sembra accarezzare le increspature d’acqua e tra i riverberi si agita la mia immagine riflessa. Tutto mi sembra ancora opaco, tutto mi appare così chiaro.
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