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Decay of a Colonial Empire - Colonia Marina Bolognese
I sensi possono ingannare gli occhi ma non la pelle. Il tatto ha il privilegio di percepire sensazioni riconoscibili che si ripetono attraverso il tempo, ben ancorate ai luoghi che li producono. Miramare era lì anche nel 1932 e, sebbene agli occhi la vista frastagliava le coste e l'interno in maniera diversa, il sole estivo delle 13.00 batteva, allora come oggi, inesorabile sul collo dei bagnanti, e la sabbia rovente ustiona le piante dei vacanzieri di ogni epoca sul litorale romagnolo. Perché, se è vero che tutto cambia, è pur vero che tutto resta, magari trasfigurato nella forma, ma anacronisticamente presente, per mettere in discussione il tempo e la Storia. ​
Forse il silenzio sovrano sull'arenile di oggi era osteggiato dagli schiamazzi di gioia d'un tempo vago, il cui spirito vedeva assieme una politica del consenso che partiva dal basso, una volontà di acquietare la pancia sociale, e una necessità di "bonifica umana" che solo il mare, il sole e l'energia dell'estate poteva completare. Curare lo spirito per offuscarne la mente dalla riflessione sulla sua stessa esistenza, questo forse era il paradigma segreto che si chiese mettere in atto all'ing. Ildebrando Tabarroni con la sua opera architettonica che si erge sulla spiaggia di Miramare, sulla linea di confine tra Rimini e Riccione. Colonia marina del "Fascio Bolognese" o "Decima Legio" era il suo nome comune, quello che si fissa nella memoria collettiva, in pieno regime con la logica della retorica fascista.
Retorica che ha sempre visto il nuovo e il futuro nel conservatorismo e nel passato, ideologia che ha suggerito al Tabarroni di applicare il modello architettonico a padiglioni utilizzato venti anni prima per l'Ospizio Marino Provinciale Bolognese, in seguito colonia Murri, realizzato a Rimini su progetto di Giulio Marcovigi. E se allora il recupero del passato era il valore dominante della propaganda del Ventennio anche le sue declinazioni più immediate dovevano esserlo. La struttura della colonia rappresenta la tardiva applicazione di una tipologia architettonica ospedaliera basata sulle teorie mediche della fine del XIX secolo, secondo le quali i reparti medici, gli ambienti per l'amministrazione e per il personale, i dormitori e i servizi dovevano essere nettamente separati. Dalla spiaggia che gli volge le spalle, il complesso si snoda in quattro padiglioni disposti perpendicolarmente, che ospitavano i dormitori e i refettori al piano seminterrato, intervallati da tre corpi di minori dimensioni adibiti a uffici, sevizi e camere per il personale.
Da una lente più ravvicinata, visibile oltre la recinzione trincerata in vari punti, le facciate mostrano il loro rivestimento in laterizio, con basamento intonacato, e sono caratterizzate dall'alternanza di aperture rettangolari al primo piano, centinate al secondo piano e binate sui lati corti dei dormitori, mentre il corridoio è forato su entrambi i lati da un doppio ordine di archi, separati da paraste al piano superiore. Saliti i pochi grandini che conducono ai ballatoi d'ingresso, un corridoio di collegamento lungo 169 metri attraversa i padiglioni, osservabile in tutta la sua estensione come un esofago vertiginoso, custode muto delle voci e risate di centinaia di balilla. Come nella cavità di un'enorme conchiglia echeggia il suono di una vita passata sospinto dall'alito di una brezza acre. Esplorando i varchi dissestati, ricolmi di porte divelte, calcinacci e piastrelle spaccate e nidificazioni di uccelli, si scorgono due grandi camerate a pianta libera per ogni piano, separate dal corridoio passante. Il corpo d'ingresso principale, al centro del complesso, con il portale d'entrata sopraelevato e preceduto da una scala, la parte centrale aggettante, il balcone e le elaborate cornici in cotto, imita invece la tipologia del palazzo urbano.
Durante la seconda guerra mondiale, il pungente odore della polvere da sparo sostituisce quello dello iodio terapeutico e i ruggiti dei cacciabombardieri miste alle sirene dei ricoveri presero il posto delle risate eccitate dalla gioia dei bambini intrecciate allo scroscio delle onde sul bagnasciuga. Sotto il peso del conflitto le colonie vennero sfruttate in tutti i modi, servirono da caserme, prigioni, depositi. Qualche voce, forse con coscienza o forse per continuare quel processo di distruzione della memoria del regime, afferma che questa colonia ebbe la sorte, particolarmente inquietante, di essere trasformata in un campo di internamento femminile. I Corpi femminili di spionaggio e sabotaggio della repubblica di Salò erano una specie di harem, con tre case da thè vi erano state trasferite in blocco con l'accusa di aver servito i tedeschi.
Dopo la guerra la colonia aprì le sue porte su grande scala sociale e vide i suoi corridoi popolati dagli schiamazzi di quei bambini di ogni ceto sociale, anche operaio, di quel settore che vide l'istituzione di nuove colonie, costruite da enti pubblici e private, dipanarsi per gran parte della Riviera. Inizialmente, il bisogno di un riscatto economico sociale post-bellico impose la necessità riappropriazione di alcuni luoghi, affinché la pratica d'uso potesse trasformarne l'identità originale e obliare la scomoda memoria. Sottrarre alla memoria i suoi luoghi iconici è il primo atto sociale di costruzione di una nuova virtù, teso, nel tempo, alla trasformazione completa e alla totale rimozione della funzione precedente. Insomma, le colonie in genere, e la Colonia Marina Bolognese in primis, divennero il cardine di un processo di democratizzazione della società e un piacevole balsamo idroterapeutico per lenire le ferite della guerra.
Questa centralità delle colonie nel modello di sviluppo sociale divenne gradualmente marginale, periferica, un po' come lo stato di degrado e abbandono che queste strutture rappresentano oggi nei loro luoghi di occupazione. Il boom economico portò rapidamente l'Italia ad uno stato di benessere per cui l'eredità del ventennio fascista prima e della seconda guerra mondiale poi, rappresentavano ormai una fase anti-libertista ed economicamente avvilente della storia del nostro Paese, per cui rimanere ancorati a vecchie abitudini generava una percezione di vergogna e di esclusione dalle dinamiche della modernità.
Andare in vacanza in colonia dalla metà degli anni '70 in poi rappresentava una vergogna sociale, una sorta di ghettizzazione umana. Così, in questi anni, avviene che il processo di rimozione simbolica di un luogo attraverso la riappropriazione dello stesso in una nuova funzione lascia il posto all'abbandono come atto di negazione e al degrado la distruzione di ogni valore emotivo.
Sebbene l'erosione del tempo alle volte riesce ad offuscare le coscienze dal peso di un problema, non certo riesce ad alleggerirle dal peso dell'esistenza di quello stesso problema. La Colonia Marina Bolognese, quella Novarese e molte altre iniziarono il loro processo di decadenza senza dismissione o riqualificazione diventando, nel tempo, una sorta di barconi del tempo arenati nella Storia, intrappolati sui lidi che tendono oggi a dimenticarle.
Queste enormi strutture versano in una condizione di informalità che dovrebbe essere pianificata. Definire una funzione della presenza all'interno del tessuto urbano e sociale sarebbe una responsabilità necessaria in uno stato civile e, qualsiasi fosse la risoluzione, concessione ad enti pubblici, associazioni e fondazioni per attività culturali o di impiego, conversione dei luoghi in musei o mostre d'arte, si attuerebbe il vero processo di modernizzazione di un paese che usa la memoria per costruire identità, che guarda ad ieri per orientare il domani.
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